
Quando l'obiettivo dell'intermediario è (soltanto) il proprio tornaconto
I cinque anni passati sono stati ricchi di cambiamenti, spesso inattesi, per chi opera sui mercati finanziari. La situazione creatasi nella fase post-pandemica è stata caratterizzata da un eccesso di liquidità disponibile, derivante dagli interventi di emergenza messi in atto da governi e banche centrali per sostenere un contesto economico che stava facendo i conti con i limiti del commercio globalizzato. L’effetto congiunto sui prezzi dei beni di tale massa monetaria, associato a colli di bottiglia dal lato di un’offerta di prodotti che non trovava ancora soddisfazione in un livello di domanda adeguato, ha innescato in breve tempo una salita generalizzata dei tassi di inflazione: si sono quindi dovuti fronteggiare, dapprima interessi di mercato azzerati o negativi, e successivamente tassi portati in rialzo con una velocità mai vista nel passato.
Come osservatori ed operatori finanziari, abbiamo potuto valutare nel merito le problematiche che investitori ed amministratori di patrimoni hanno dovuto gestire in termini di scelte di asset allocation e di costo-opportunità, e non poche volte abbiamo dovuto intervenire e correggere decisioni altrui che avrebbero portato i portafogli a non performare adeguatamente o a discostarsi dal profilo di rischiosità relativa.
Anche dal punto di vista regolamentare la situazione sulla piazza svizzera ha subito una trasformazione, e la nuova legge sui servizi finanziari è entrata ormai dal 2022 a pieno regime all’interno degli istituti bancari e nelle società di gestione e di consulenza come la nostra. L’aspetto forse più radicale e fondante della normativa, circoscrivibile nello sforzo dell’autorità di migliorare la protezione del cliente finale, rimane tuttavia un fattore di criticità e, sotto molti punti di vista, stenta ad essere assimilato pienamente nei comportamenti di alcuni agenti amministratori.
Dopo anni di attività, con evidente stupore ma anche con un certo disincanto, ci accostiamo sempre più di frequente a casi concreti che ricalcano molto da vicino prassi operative che, nei primi lustri del duemila, potevano considerarsi tipiche nel contesto nazionale.
Due sono gli elementi che di solito si riscontrano nuovamente presenti dopo una prima analisi del portafoglio che il futuro cliente ci sottopone: un’incoerenza di fondo nel rapporto rischio-rendimento degli investimenti implementati e, qualora la posizione provenga da un precedente mandato di consulenza o di gestione discrezionale, una quota elevata di costi (più o meno espliciti e di diversa natura) di cui non era immediato aver avuto percezione nel corso del tempo.
Affrontando il primo aspetto, ci si potrebbe chiedere come, dopo il numero esponenziale di domande personali e i relativi formulari da compilare su conoscenze ed esperienze finanziarie necessarie per poter aprire una relazione, ci possa essere incongruenza tra la strategia di portafoglio perseguita e ciò che il cliente credeva di aver attuato insieme al consulente (od aver delegato al gestore) in tema di decisioni di investimento. Se l’ambito della gestione patrimoniale appare forse ancora quello di maggior garanzia per il soggetto rispetto a potenziali allocazioni troppo sbilanciate verso l’interesse della banca o dell’intermediario terzo (nonostante anche qui si incorra nel rischio di possedere, in modo più o meno consapevole, strumenti non performanti e rischiosi, non ottimali finanziariamente e fiscalmente, e troppo costosi), è all’interno della consulenza agli investimenti (advisory) che registriamo le principali problematiche. Essendo stato probabilmente il campo più normato dai recenti aggiornamenti legislativi, non ci si aspetterebbe che alcune maglie rimanessero invece larghe quanto basta da consentire l’accesso a comportamenti imprudenti ed autoreferenziali da parte del consulente, alcune volte sfocianti nel dolo.
Se da un lato è noto come il tipo di servizio preveda l’accettazione pratica (e controfirmata) del cliente delle raccomandazioni ricevute dall’esperto, dall’altro si distinguono ancora esempi di consulenze implementate effettivamente quali gestioni discrezionali, dove spesso le decisioni sono soltanto avallate dal mandante in un secondo momento senza la dovuta informazione (di solito firmando occasionalmente in filiale, su richiesta, le varie contabili delle operazioni eseguite), ma le decisioni vengono palesemente assunte in proprio dall’intermediario. Uno degli aspetti contrattuali che viene impiegato come sponda per muovere verso una tale situazione è il far accettare al cliente una consulenza che prenda in considerazione solo i singoli strumenti finanziari e non l’intera posizione, così che la responsabilità di sorvegliare i rischi complessivi non sia ascrivibile al professionista ma resti in capo al mandante.
Un simile approccio produce a cascata una serie di scenari penalizzanti per il cliente.
In prima battuta, si assiste a circostanze in cui egli scopre a posteriori (ad esempio, quando occorre motivare delle perdite in conto capitale) di detenere o di aver detenuto strumenti finanziari, anche complessi, di cui ignorava la natura, il funzionamento e quali fossero gli asset sottostanti; rispetto a cui aveva dichiarato inizialmente un certo grado di conoscenza ed esperienza di utilizzo, ma di cui in realtà non aveva successivamente mai approvato l’acquisto in modo pienamente consapevole.
Il fatto poi che il controllo dei rischi possa essere ribaltato sul mandante può condurre alla costruzione di portafogli non equilibrati, dove singole posizioni condizionano gravemente il risultato al raggiungimento di un peso specifico eccessivo rispetto al totale. In problemi analoghi si incorre se non sono indicati all’inizio del mandato i limiti massimi di esposizione a cui devono sottostare determinate categorie di investimento (oltre a quelli all’allocazione valutaria in divise diverse da quella di riferimento), con l’investitore che può rimanere nella convinzione di detenere un portafoglio con un rischio coerente alla propria propensione, mentre invece la volatilità è diventata fuori controllo.
Un ulteriore aspetto delicato nei casi di consulenza in cui si agisce nel concreto senza interpellare il cliente ex-ante o non informandolo in modo adeguato, riguarda l’impatto dei costi. Rimangono molto diffusi portafogli contenenti in maniera massiva prodotti (strutturati, actively managed certificates-AMC, fondi di investimento) che incorporano nel prezzo costi impliciti difficilmente individuabili dai non-specialisti. Inoltre, qualora non sia stata negoziata una commissione omnicomprensiva (la cosiddetta All-In fee), ma siano pagate le singole compravendite (con percentuali variabili sull’importo scambiato in funzione della natura dello strumento e del controvalore), l’intermediario addebiterà costi tanto più elevati quanto maggiore sarà la frequenza delle transazioni, con un evidente conflitto di interesse se dall’analisi emergesse che l’incremento di quest’ultime non fosse associato ad una precisa strategia e non avesse prodotto migliori rendimenti per la controparte. Tenendo conto anche dell’imposta di bollo della Confederazione che grava su alcuni strumenti, in acquisto e in vendita, si intuisce come con il passare del tempo il risultato netto di un portafoglio sia sempre più condizionato da commissioni e tasse non recuperabili.
Nel tratteggiare un bilancio provvisorio dello stato dell’arte, appare indubbio che le diverse sfaccettature della materia non consentano di legiferare o di porre dei controlli tali da poter escludere a priori l’errore procedurale fino alla negligenza grave del professionista. Allo stesso tempo, ci si attendeva che dopo anni di elaborazione e confronto, il settore dell’amministrazione patrimoniale si fosse finalmente orientato, nel suo operare, ad una migliore salvaguardia dell’interesse dell’investitore finale rispetto al passato.
Esaminando molti casi di clienti in difficoltà che ci presentano il loro portafoglio per una valutazione indipendente, capiamo che siamo ancora lontani dal vedere una relazione paritetica tra assistito e fornitore di servizi finanziari dal lato di un corretto equilibrio degli interessi in gioco. Trattandosi fondamentalmente di un problema culturale, questa evidenza necessita di un cambio di prospettiva nell’agire: ad oggi, è ancora molto trascurata l’importanza dell’educazione finanziaria come parte integrante della prestazione offerta e non si comprende del tutto come il primo guadagno per l’intermediario sia di far percepire che non si stanno utilizzando scorciatoie per ottenere un profitto immediato, ma che il connubio con la clientela vuole invece sfociare in una convenienza reciproca. In Altiqa miriamo a proporre un tale livello qualitativo nella nostra attività come consulenti, evitando conflitti di interesse nelle scelte di investimento, migliorando la conoscenza finanziaria delle persone che affianchiamo, riducendo gli oneri che gravano sul rendimento del portafoglio.